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I dolci dei monasteri femminili

I dolci dei monasteri femminili - Li cosi duci di li batii 

     conchiglie2Il ruolo svolto dai monasteri femminili nello sviluppo dell’arte dolciaria – naturalmente non solo di quella siciliana - è stato di fondamentale importanza. Dal XV al XIX secolo, prima della nascita delle vere e proprie pasticcerie, i principali dolci che si preparavano nel territorio dove sorgevano i monasteri sono stati quasi tutti presi in rassegna e molto spesso rielaborati dalla competenza e dalle abili mani delle suore. Le quali, a volte, spinte dal desiderio di conquistare la meraviglia e la gratitudine delle personalità destinatarie delle loro prelibatezze, cominciarono a creare anche dei prodotti completamente nuovi. Infatti, bisogna subito mettere in luce che la consuetudine di preparare dolci all’interno dei conventi femminili non era nata all’inizio per fini commerciali, ma dall’esigenza delle suore di contraccambiare in maniera elegante e significativa favori e   servizi ricevuti.

I beneficiari delle loro specialità erano vescovi e prelati della zona di appartenenza; confessori personali; medici e professionisti con i quali molto spesso dovevano - malgrado la clausura - entrare in contatto. I dolci, con i loro simboli rituali e il forte legame con il calendario liturgico, costituivano sempre i migliori regali che le monache potessero fare ai loro benefattori. E poi, considerato il costo proibitivo dello zucchero e delle materie prime che occorrevano, i dolci dei conventi avevano all’epoca un valore ancora più prezioso. Le suore pasticcere erano quasi tutte figlie cadette di famiglie nobiliari e benestanti che a causa dell’imperante principio del maggiorascato erano state costrette a prendere i voti. A differenza dei fratelli minori che avevano la facoltà di intraprendere oltre alla scelta monastica – non di clausura! – anche la carriera militare, per loro esisteva solo la violenta sistemazione nei conventi. Quindi, per la maggior parte delle suore segregate senza vocazione, praticare l’arte dolciaria rappresentava l’unica forma di libertà dentro le rigide regole della vita monastica. E per loro, il dolce rappresentava la sola ed esclusiva possibilità di continuare ad avere un contatto con il mondo esterno. Gli ambienti della cucina all’interno dei monasteri femminili riservati e attrezzati per la produzione dolciaria, sono, quindi, i primi veri e propri laboratori di pasticceria della storia! Nei capitoli precedenti, abbiamo infatti visto che quasi tutti i dolci erano preparati per lo più in occasione di feste popolari e confezionati a vista nelle pubbliche piazze. La specializzazione dolciaria all’interno dei monasteri femminili segna quindi l’inizio della cosiddetta pasticceria moderna: il dolce, oltre a soddisfare il palato, tenta adesso di sedurre anche la vista e la fantasia. Rispetto ai dolcieri del passato, le monache pasticcere iniziano a prestare molta attenzione anche alla forma e all’estetica, decorando in maniera artistica con glassa e frutti canditi ogni dettaglio dei propri dolci. Siamo anche storicamente nel cuore della svolta epocale della pasticceria: infatti, dalla seconda metà del 1400, l’impiego dello zucchero ha preso il sopravvento sul miele diventando l’ingrediente principale delle vecchie e nuove specialità dolciarie. La Sicilia, tra l’altro, è avvantaggiata dal fatto di essere in questo periodo la prima produttrice di zucchero del territorio nazionale, tanto da esportarlo sia in Italia che all’estero. Il nuovo e prezioso bianco ingrediente - molto più manipolabile del miele - esalta la fantasia delle monache, ispirando la creazione di dolci che soddisfano pienamente la nuova esigenza di sedurre sia il palato che la vista. E’ il caso per esempio della famosa frutta martorana: la pasta reale di mandorle e zucchero che artisticamente modellata e dipinta riproduce in manieramartorana cesto 2 straordinaria ogni esemplare di frutta. Con il trascorrere del tempo e il mutare della società, la produzione dolciaria dei monasteri femminili, nata come semplice diletto e fabbisogno personale, diventa anche attività commerciale, circoscritta certamente entro certi limiti, ma abbastanza sufficiente da far cambiare l’organizzazione interna dei conventi per adeguarsi all’aumento della domanda. Le madri badesse si occupano in prima persona e in maniera più oculata del reperimento delle materie prime, selezionando fornitori sempre più affidabili e favorendo, contemporaneamente, l’ingresso nel convento delle converse. Quest’ultime – le cosidette suore laiche – diventano sempre più necessarie nelle cucine dei monasteri per far fronte soprattutto alla mole di “lavoro pesante” che si è venuto nel frattempo a creare: sovrintendere e accendere i forni a legna, pulire le numerose teglie, mondare grandi quantitativi di materie prime… Emozionante, a tal proposito, la testimonianza riportata da Maria Grammatico – bravissima pasticcera ed ex conversa del San Carlo di Erice - nel suo libro Mandorle amare, scritto con Mary Taylor Simeti: “… All’una di notte ci dovevamo alzare, per andare ad accendere il forno. Venivano a bussare all’una, e ci alzavamo, - io non lo potevo sopportare. Freddo da morire! In quelle casacce tutte vecchie! Si doveva andare ad accendere il fuoco, perché prima delle quattro quando venivano le suore, il forno già doveva essere caldo, si doveva incominciare a infornare mostaccioli, biscotti, ciò che c’era da fare… Poi si faceva colazione, si pigliava il pane con il latte e dopo, mentre quelle là facevano i compiti speciali, noialtre scendevamo nel laboratorio. Lì si faceva la pasta reale, frutta, agnelli, cuori – dipende dalla stagione. C’era il giorno che si schiacciava mandorle e si doveva schiacciare mandorle; c’era il giorno che si doveva pelare mandorle, e si pelava mandorle. Noi le schiacciavamo con martello e pietra: in una settimana lavorando in otto si potevano schiacciare 4 salme di mandorle (quasi 800 chili). Ci volevano cinque chili per fare un chilo di mandorle sgusciate; le scorze venivano bruciate nel forno”. *1 Maria Grammatico e Mary Taylor Simeti, Mandorle amare, Flaccovio Editore, Palermo 2004

 

Sui dolci e i monasteri femminili, Antonino Uccello nel suo Pani e dolci di Sicilia, dedica un interessante paragrafo dal titolo: Dai ricettari dei monasteri alla dolceria laica e popolare del quale mi sembra assai utile riportare il brano seguente, in quanto a sua volta è la felice sintesi di autorevoli testimonianze sull’argomento : “Uno dei punti fermi da cui fin da ora possiamo partire, è proprio la funzione che ebbero i monasteri, particolarmente femminili, nello sviluppo della dolceria, al punto che il Pitré considerava addirittura monopolio di essi i più importanti ricettari. In un inedito del Salomone–Marino, pubblicato di recente, è espressa in modo esemplare la funzione esercitata dai conventi nell’arte dolciaria: ‘Le monache hanno acquistata celebrità per la confezione de’ dolci e de’ Dolci Monasteri Femminili 1 25manicaretti squisiti, non solamente in Palermo, città per eccellenza golosa e consumatrice di dolciumi, ma in tutta la Sicilia’. Un’interessante testimonianza sull’argomento ci viene inoltre, dal Meli, il quale dedicò appunto una lunga poesia a Li cosi duci di li batii, ai dolci, cioè, che venivano confezionati dai ventuno monasteri di Palermo, da quello di S. Chiara al Salvatore, alla Martorana, ecc., celebrando di ciascuno di essi le specialità più rinomate, privilegio soprattutto del clero e dell’aristocrazia palermitana. E in proposito veniva annotando il Pitré, tra l’ironico e il compiaciuto, che come ogni monastero aveva ‘l’emblema in legno o in marmo sulla porta’, quali, a esempio, ‘le braccia incrociate per le francescane, il Charitas per le paoline’, vantava altresì una ‘piatta di pasta di mandorle, un manicaretto, ch’era il suo distintivo’. Sicché sono rinomati i frutti di pasta di mandorle del convento della Martorana, i cannoli, le cosiddette teste di turco e le cassatelle della Badia Nuova. Famosi, inoltre, i nucatili di Natale del monastero della Concezione, per il festino di S. Rosalia. Occorre ancora ricordare che tra le doti che si richiedevano in una monaca, prevalgono quella di cuciniera, cioè esperta in arte culinaria, e quella di speziala, che il Pitré traduce con dolciera…. Anche per la contea di Modica le cose non andavano diversamente, e in proposito abbiamo, tra l’altro, l’interessante testimonianza di Serafino Amabile Guastella, il quale ricorda che nel periodo di Carnevale le monache confezionavano dolci particolari che poi venivano distribuiti alle famiglie meno abbienti. Lo Stesso studioso di Chiaramonte ci riporta infatti, il proverbio: La sdirrumìnica (la domenica di carnevale) fatti amica la monica, e commenta: ‘davvero la domenica grassa era il martirio delle povere monache’, perché la distribuzione dei dolci a centinaia di famiglie, oltre a creare rivalità e assottigliare le casse del convento, suscitava inevitabilmente invidie e gelosie tra i beneficiati. A Noto, a esempio, fino al secolo XIX, dei diciassette conventi e dei sei monasteri che contava la cittadina del siracusano, il più rinomato era quello del SS. Salvatore, che accoglieva numerose religiose che osservavano la regola di S. Benedetto. In un elenco delle ultime monache di questo convento, risultano trentuno religiose in gran parte di estrazione aristocratica, e tre zitelle, chiamate comunemente zitidduzzi di la badia, cioè delle converse che, pur non legate da voti o regole, osservavano la clausura, ed erano soprattutto famose per l’abilità con cui usavano confezionare la più raffinata dolceria”. *2 Antonino Uccello, Opera cit.

Lo scritto di Antonino Uccello testimonia quanto grande fosse la diffusione dei monasteri femminili in Sicilia e della loro specifica produzione dolciaria, fino alla seconda metà dell’Ottocento. Il fenomeno è spiegabile attraverso due importanti dati storico-sociali: il primo è legato alla forte presenza nell’isola del ceto nobiliare ed aristocratico che ha favorito - per le ragioni sopra esposte - le istituzioni dei conventi sin dai tempi di San Benedetto e di Santa Scolastica; il secondo è collegato direttamente all’importante pagina della storia nazionale ed europea che ha visto solo la Sicilia non coinvolta dall’editto di Napoleone del 1801 che ha espropriato tutti i beni ecclesiastici. I monasteri siciliani hanno quindi goduto, rispetto ai monasteri del resto d’Italia, di mezzo secolo di vita in più, quando nel 1866 arriverà anche per loro l’espropriazione da parte dello Stato italiano. A sopravvivere, dopo l’unità d’Italia, grazie a particolari situazioni burocratiche ed ereditarie, saranno pochi conventi, e oggi, quelli ancora in attività si contano addirittura sulle dita di una mano: il convento di Santo Spirito di Agrigento; il monastero benedettino di Palma di Montechiaro; il convento delle monache di clausura di Mazara del Vallo e quello di S. Francesco di Paola di Alcamo. Tutti gli altri “sopravvivono” grazie alle specialità dolciarie che le monache pasticcere hanno lasciato in eredità al territorio in cui per secoli hanno operato e che oggi sono diventati a tutti gli effetti i dolci tipici del luogo: lo sfoglio di Polizzi Generosa (Pa); le cucchitelle di Sciacca (Ag); le pantofole di LercaraCucchitelle di Sciacca Friddi (Pa); gli ericini di Erice; la pasta vergine di Alcamo; la testa di turco di Castelbuono (Pa); la pasta reale di Mistretta (Me); i facciuna di Palazzolo Acreide (Sr) e Noto (Sr); le scorze d’arancia candite di Siracusa; gli impanatigghi di Modica (Rg); le cassatelle di Agira (En); le cassatelle di Mazzarino (Cl); i napoli di Enna; i nucatili di Santa Ninfa (Tp)…

Il dolce conventuale più famoso e sicuramente più elaborato di cui è rimasta la memoria e che solo qualche appassionato di pasticceria continua ancora a tentare di realizzare è il trionfo di gola del convento di via Montevergini a Palermo. “In questo dolce, una specie di ‘zuppa senza fretta’, la gola trionfa davvero: è un compendio di tutto ciò che il siciliano ama di dolce. L’arte sta nel montaggio e nella qualità degli ingredienti, soprattutto della zuccata; è equilibrato e squisito, ma non è facile replicare a casa la loro maestria. Per 12 persone: 1 pan di Spagna tagliato orizzontalmente in tre dischetti; 2 dischi di pasta frolla già cotti, di TRIONFO DI GOLA 2circa 26 e 22 cm di diametro; 500 gr. Di pasta reale colorata di verde stesa a sfoglia e tagliata a dischi; 150 gr. Di pistacchi tritati; 1 litro di biancomangiare o crema di ricotta; 500 gr. Di zuccata in conserva e frutta candita e/o frutta di pasta reale . Il trionfo viene confezionato a strati di tutti questi ingredienti, aggiungendo o togliendo secondo la ricetta o il gusto del cuoco. Ogni strato deve essere un po' più piccolo del precedente, in modo che risulti un cono a base larga che verrà ricoperta di una sfoglia di pasta reale, oppure con una gelatina di frutta, e poi decorata con frutti canditi interi. In genere si usa cominciare con un disco di pan di Spagna di 30 cm di diametro, su cui viene steso uno strato di zuccata, uno strato di biancomangiare ed infine uno strato di pistacchi. Questa sequenza può ripetersi fino alla copertura finale, oppure altri ingredienti fra quelli elencati possono seguire negli strati superiori. Le monache mettono spesso, alla fine, un'albicocca di pasta reale in cima”. 3 Mary Taylor Simeti, La tavola del Gattopardo, Edizioni Futurantica, Palermo 2007.

 

Al secondo posto, per nomèa, tra i dolci dei conventi, troviamo il cuscus dolce delle monache cistercensi del convento di S. Spirito di Agrigento che per fortuna, ancora oggi, dietro pressante prenotazione si può tuttora ricevere direttamente dalle mani delle suore. Le  monache lo continuano a confezionare con gli antichi immutati sistemi. Gli ingredienti per 6 persone: 1/2 Kg di semola di grano duro; 100 gr di cioccolato; 100 gr di pistacchi; 100 gr di mandorle abbrustolite e tritate; 50 gr di zuccata; 30 gr di zucchero a velo. Il procedimento: mettere la farina di semola in un recipiente, la cosiddetta "mafaradda".Cuscus dolce 1 Manipolarla con moto rotatorio delle dita e fare in modo di ricavare palline piccolissime. Lasciar asciugare per tre ore su una tovaglia il cuscus ottenuto. Cuocere a vapore nel tegame detto "cuscussiera": mettere la semola nella parte centrale del tegame, solo quando l'acqua comincerà a bollire. Coprire il cuscus con una tela bagnata. Lasciare sul fuoco per circa 40 minuti, e rimettere la semola nella "mafaradda" Spruzzarla con acqua fredda e lasciarla riposare per 15 minuti circa. Rimettere il cuscus nel tegame e fatelo cuocere ancora per 20 minuti. Toglierlo dal fuoco e lasciarlo raffreddare. Addolcirlo con 2 o 3 cucchiai di zucchero a velo, mettere le mandorle, le scaglie di cioccolato e i pistacchi sgusciati e tritati e pezzettini di zuccata. Mescolare e servite in tavola freddo.

Un altro dolce classico delle cistercensi di Agrigento è la conchiglia, una buonissima pasta reale che fa da scrigno ad un prezioso ripieno di pasta di pistacchio. La conchiglia è un simbolo molto diffuso nell’antichità. I pellegrini del cammino di Santiago de Compostela la portano tuttora con grande devozione al collo o al braccio per tutto il lunghissimo tragitto che va da Roncisvalle a Santiago. Si trovano conchiglie riprodotte in importanti dipinti del Rinascimento, nelle rappresentazioni di S. Giovanni Battista, nella volta delle absidi delle chiese e in mano agli eremiti. Ma soprattutto la conchiglia è il simbolo della fertilità e quindi un esplicito augurio di rinascita, ecco perché viene preparata soprattutto durante il periodo pasquale.

Le suore del convento di Santo Spirito di Agrigento continuano a preparare anche altre specialità che si inseriscono a pieno diritto a rappresentare la più autentica tradizione dolciaria siciliana. Innanzitutto, gli amaretti di pistacchio: una vera e propria squisitezza che seduce con il delicato e contemporaneamente intenso sapore anche il palato più esigente. I pistacchi della zona di Favara e di Raffadali – per nulla inferiori a quelli di Bronte, anzi! – vengono lavorati dalle suore con la stessa meticolosità degli antichi pistori e amalgamati con una equilibrata dose di mandorle amare. La pasta ottenuta, viene personalizzata dal solito segreto che contraddistingue il ricettario conventuale e introdotta nell’artigianale sac-poche con il quale realizzano i caratteristici fiocchi di “neve verde” direttamente sulla teglia. Dopo averli coreograficamente guarniti con il seme di pistacchio, le monache affidano al calore del forno il compito di esaltarne il sapore e i profumi. Sempre con la stessa tecnica di preparazione degli amaretti di pistacchio, le riccisuore del Santo Spirito sfornano anche i biscotti ricci, vera e propria esaltazione della mandorla e dello zucchero. La ricetta di questa specialità, ha valicato le mura del monastero ed è arrivata nei laboratori dei pasticcieri di Mussomeli (Cl) e Canicattì (Ag). Nel monastero delle benedettine di Palma di Montechiaro, fondato nel 1640 dalla celebre famiglia di Lampedusa, suor Maria Nazzarena continua a preparare i dolci menzionati anche nelle pagine del Gattopardo. La specialità più richiesta è la cassatella a forma di stella, di cuore o semplicemente rotonda. La parte esterna ricoperta di glassa bianca è decorata con due fiorellini di pasta reale, uno verde e l’altro rosso. Lo squisito ripieno poggia su una base di pasta di mandorla impreziosita con della zuccata imbevuta di liquore. L’orgoglio di suor Maria Nazzarena è tutto riposto nei blasonati biscotti ricci del Gattopardo. Non lo dice apertamente, ma in maniera sottile e diplomatica, consiglia di diffidare dalle innumerevoli imitazioni che si trovano nelle pasticcerie dell’agrigentino e del nisseno.

Ho il piacere di concludere questo capitolo riportando l’introduzione che l’Abate Giovanni Meli fa alla sua simpaticissima poesia Li cosi duci di li batii dedicata alla produzione dolciaria dei ventuno monasteri femminili di Palermo di fine Settecento. (Giovanni Meli fu poeta, medico e professore universitario nella Sicilia del Settecento; il titolo di “Abate” era onorifico e funzionale per varcare le soglie dei monasteri e poter curare le monache di clausura).

Oh, vui chi aviti ‘na gran passioni/A li sfinci, pastizzi e turtigghiuni,/Vui puru chi mustrati ammirazioni/Di cosi duci e ni siti manciuni,/Liggiti ora sti versi chio disponi/La mia gulusa Musa arruzzuluni,/Liggitili ‘cu summa attenzioni/Chi a vui su’ didicati sti canzuni./Musi chi in Elicona vi parati/Di cannola, cassati e cassateddi/Di sfinci, pastizzotti e ravazzati/Cuscusu asciuttu, nucatuli e feddi,/Di milinciani, olivi e capunati/ Di minni, impanatigghi, e lasagneddi/ Vui curtisi a lodari mi insignati/Li cosi duci chiù famusi e beddi./ Io chi su’ amanti di narratorii/Di cosi duci nun provu miserii/Sempri ni tegnu chini li scrittorii/E in iddi sfogu li me desiderii/E pri ristari a li futuri storii/Cu rimi ora burlischi ed ora serii/Eu vogghiu diri li pregi e li glorii/Di li nostri galanti munasterii./ Dunca Palermu ch’è città filici/Ni lu bon gustu lu primu riluci,/Pititti d’ogni sorti pri l’amici/E di zuccaru e meli iddu produci./Ci vegna un mali a cu mali ni dici/Iddi su’ lu me spassu e la mia luci:/Criu chi me papà quannu mi fici,/Era inzitatu supra cosi duci.

Oh voi che avete una gran passione/Per sfinci, pasticci e tortiglioni,/Voi pure che mostrate ammirazione/per cose dolci, e ne siete mangioni,/Leggete ora questi versi che dispone/La mia golosa Musa alla rinfusa,/Leggeteli con somma attenzione/Perché a voi sono dedicate queste canzoni./ Muse che in Helicona parlate/ Di cannoli, cassate e cascatelle/Di sfinci, pasticciotti e ravazzate/Couscous asciutto, nuca teli e fette,/Di melanzane, olive e caponate/Di minne, impanatelle e lasagnelle/Voi gentilmente mi insegnate a lodare/Le cose dolci più famose e belle./ Io che sono amante dei parlatori/Di cose dolci non provo miseria/tengo sempre pieni i miei armadi/E con esse sfogo i miei desideri/E per restare ai futuri storici/Con rime ora burlesche ora serie/Io voglio dire i pregi e le glorie/Dei nostri galanti monasteri./ Dunque Palermo che è città felice/Risplende per prima per il suo buon gusto,/Cose appetitose per gli amici produce/Di ogni sorta, di zucchero e di miele./Che venga un malanno achi male ne dice/Esse sono il mio spasso e la mia luce:/Credo che mio padre quando mi fece/Era innestato sopra cose dolci.

 

dolcezzesiciliaTratto dal Libro “Dolcezze di Sicilia – Storia e tradizioni della pasticceria siciliana”

di Salvatore Farina – Edizioni Lussografica 2009